Cinema
Vicino ad Arles, dove mi sono recato per il Festival Internazionale della Fotografia (Les Rencontres d’Arles), esiste una cava (Carrières des Lumières) riadattata a cattedrale dell’arte. In questo estatico contesto viene proiettato di Jean Cocteau (1889-1963) il suo ultimo film: “Il testamento di Orfeo” (1960). Vedo così palesarsi l’ispirazione per tentare di raccogliere un’immagine in bilico tra surrealismo, sogno e realtà: difficile mix in quella sospesa atmosfera.
Lo stretto rapporto tra due linguaggi quali il cinema e la fotografia, è parte della pluridecennale storia delle arti visive. Fotografi che sono diventati registi, oppure grandi registi che hanno avuto un background fotografico. Questo è il caso di Stanley Kubrick (1928-1999) in esposizione quest’anno a Roma e a Genova. In questo caso ho ritrovato nei suoi scatti di fine anni quaranta New York, il mio stesso approccio alla street photography in non cerco obbligatoriamente il bressoniano momento decisivo, piuttosto il tentativo di mettere in scena la realtà, dibattuto tra la mia paura e il mio desiderio di guardare. Sia il mezzo fotografico che il dolly cinematografico possono essere uno stimolo di riflessione sul mezzo stesso e sull’ambiguo ruolo dello spettatore.
Nella stessa direzione ho provato a rallentare il tempo in immagine square, cristallizzando l’uomo in rapporto con gli spazi e gli oggetti del suo tempo. Questo lavoro fu fatto anche nell’ unico libro fotografico pubblicato nel 1941 da un altro regista cinematografico, Alberto Lattuada (L’occhio quadrato).